L’approdo

Non riuscivo a respirare. Ero su quel barcone da poco più di un quarto d’ora e già mi mancava l’aria; al posto di questa inalavo una sostanza acre che mi bruciava le vie respiratorie e mi pizzicava la pelle. Mia moglie e mio figlio Kirichù erano seduti affianco a me, sulla prua dell’imbarcazione. Eravamo partiti dalla Tunisia, dopo aver vagato nel deserto.
All’inizio del viaggio c’erano anche mio padre e mio fratello con noi; i miei suoceri si erano rifiutati di venire in Italia e abbandonare la loro terra natia. A quell’epoca circolavano storie a cui nessuno voleva credere. Nacque tutto due anni prima: c’era la guerra e in quegli anni iniziarono a prendere vita delle voci secondo cui, se si pagavano circa 3.000 euro, si poteva raggiungere l’Italia e quindi l’Europa. Quando ebbi la conferma che tutto ciò era vero, decisi di mettere da parte i soldi per partire. Poi, sei mesi fa, ci fu un bombardamento sulla nostra città e constatammo che era ora di andare.
Durante il tragitto per raggiungere la costa, passammo le pene dell’infermo e purtroppo non tutti riuscimmo a farcela. In quel momento, però, sul barcone la mia speranza di giungere alla meta diventava ogni minuto più forte. I due trafficanti non ci avevano detto nulla, se non di sbrigarsi, poiché dovevamo partire prima dell’alba. Tutto andava relativamente bene. In seguito, però, le cose si complicarono. Una donna, infatti, che si trovava sottocoperta, iniziò a gridare per le doglie del parto e quando finalmente terminò la straziante agonia, morì e il suo cadavere e il bambino mentre era in lacrime furono gettati fuori bordo. Da quel momento in poi uno dei due trafficanti veniva sempre a vederci e se la prendeva con qualcuno. Ad un certo punto, lanciò persino l’insulina di una bambina diabetica in mare; tutti erano consapevoli del fatto che non ce l’avrebbe fatta ad arrivare viva alla meta. É in questi momenti che ti chiedi dove sia la tua dignità umana, se raggiungerai il traguardo. Non c’è risposta, si può solo aspettare.
Nella tarda mattinata assistetti ad uno degli spettacoli più raccapriccianti della mia vita: il nostro barcone venne affiancato da un’altra barca; da questa scesero due uomini che con i nostri trafficanti presero tutti i cadaveri presenti e li gettarono in mare. C’erano donne, bambini, anziani, uomini. Alcuni galleggiavano, altri colavano a picco. Le espressioni dei loro volti erano vacue, addormentate dalla gelida morte. Mai le dimenticherò.
Non appena il lavoro fu terminato, tutti e quattro ci lasciarono. Alcune persone prese dal panico o probabilmente impazzite si tuffarono in acqua, rendendosi conto troppo tardi di non saper nuotar. Non potemmo fare nulla per aiutarle.
Dopo poco, però, si riaccese in noi la speranza: davanti a noi una sottile striscia di terra si intravedeva all’orizzonte. Dunque era vero, ci eravamo riusciti: quella era l’Italia. Mi voltai verso mia moglie e mio figlio e vidi solo gioia nei loro occhi. Per la prima volta dopo mesi, potei immaginare un futuro migliore per noi. Potevo sentire il profumo degli agrumi; potevo gustare il sapore della felicità, che tanto mi era mancato. Potevo osservare il mio traguardo. Quando ci fummo avvicinati a sufficienza alla costa, riuscimmo perfino a vedere un’imbarcazione. Molti iniziarono ad esultare, ma un rumore sinistro li interruppe. Dalla stiva le persone incominciarono a salire,  mentre questa si riempiva di acqua; ci respingevano, coloro che si trovavano sui lati dovettero saltare e finire in mare. Io stringevo la famiglia e proprio quando finalmente la nave avvistata arrivò, fummo scaraventati fuori bordo. Lottai; tenni a galla mia moglie e Kirichù. Fui persino preso, ma la mia pelle era scivolosa e tornai giù. Li vidi: la mia famiglia era in salvo. Io, invece, stavo scendendo insieme ad altri. Il mio approdo, che tanto avevo bramato, era vicinissimo, ma non riuscii a toccarne la sabbia.

Il traguardo è qualcosa per cui lotti, è qualcosa che ti da la forza e la speranza di continuare. L’arrivo è la salvezza e la realizzazione di un sogno.

 

 

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